Premessa: come forse avrete notato, avevamo già coperto The Hateful Eight, con una review positiva ma non proprio entusiasta. In quella review veniva il film veniva definito “divisivo” e quindi, visto che un’altra redattrice ne è rimasta entusiasta e che il film sta avendo un successo incredibile nel nostro Paese, in via eccezionale abbiamo deciso di pubblicare un nuovo pensiero sul film e soprattutto sui suoi personaggi…

L’ottavo colpo in canna del buon vecchio Quentin è una festa orgiastica, un carnevale macabro di maschere imbrattate di sangue e follia, filamenti derivativi ripensati e tessuti insieme in soggetti e suggestioni che vanno a formare una compagine distorta, un corpo unico che genera e culla mostri. Proprio come in Deathproof – A prova di morte, il trucco cinefilo, l’esposizione sfacciata della tecnica del medium è parte integrante del gioco, e metro rivelatore: qui, la pellicola si sfalda sui fondali e crepita come una miccia in imminente potenza d’esplodere, proprio come la storia che accoglie; i 70mm allargano l’occhio e allagano la visione delle pedine (tutte, ovviamente, nere) sulla scacchiera, moltiplicando le intrusioni in campo, nutrendo senza sosta secondo e terzo piano, non permettendo ai partecipanti di sfuggire al coinvolgimento perenne e trattenendo la sottile e costante onnipresenza della tensione. Infiammata, oltretutto, da uno score di mostruosa magnitudo, in cui rintracciamo facilmente la mescolanza di generi da cui The Hateful Eight è vivificato (western e grottesco, giallo e horror), come un Frankenstein che cammina simultaneamente su multiple gambe.

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La manica di farabutti del titolo è composta da otto piccole canaglie in mezzo a cui scorrono altrettante ben salde linee di demarcazione, conseguenza del loro essere automatici rappresentanti dei mali endemici di un paese che vive di conflitti, di confini, di divisioni (razziali, politiche, sessuali, ideologiche).

Il generale radicato nelle proprie ammuffite ideologie come nella poltrona su cui è attecchito, in una posizione regale che nasconde un’imposizione ricattatoria.

Il presunto sceriffo senza stella a carico, rinnegato sudista teso al riscatto sociale ma incapace di trasformarlo in manifesto eroico perché avvezzo – con compiacimento – al servilismo e alla vigliaccheria.

Il cacciatore di taglie furoreggiante di boria e rapacità monetaria fregato dall’inabilità a sfumare l’evidenza del mondo che gli si presenta dinanzi.

Il boia giullare che assume il ruolo di pacificatore atarassico per il proprio interessato quieto vivere.

La bandita brutta, sporca e cattiva perché la disegnano così, la mina vagante selvaggia, l’assassina che possiamo solo immaginare capace dei crimini a lei approssimativamente imputati, su carta la villain eletta (dal suo carnefice) ma mai in atto di dimostrarsi tale.

Il locandiere messicano, protetto dietro una pelliccia gonfia di segreti e il meno convincente di tutto il teatrino, il primo fattore stonato a scatenare l’ombra del dubbio;

Il cocchiere, intermezzo comico designato e sacrificabile macchietta, operaio innocuo colpevole d’innocenza stritolato fra le mire degli otto folli portatori malati dei vizi di chi comanda.

Il cowboy asociale dagli occhi di ghiaccio e il portamento scocciato, iena stanca refrattaria agli sguardi.

L’ex soldato nordista, nero, osteggiato da ambedue le fazioni belliche, parzialmente speculare al “ratto” descritto da Hans Landa nel capolavoro – inarrivabile – Bastardi senza Gloria (per tutti gli altri è, d’istinto, la feccia da schiacciare e deridere), bounty hunter sornione e ferale, ma anche il giocatore più in gamba di tutti, lo spietato irrimediabile e irridemibile, il più consapevole, nel bene e nel male, della parte che gli è stata assegnata (e che ha saputo limare, ricucirsi addosso) sui palcoscenici che suo malgrado è costretto a calcare, quello piccolo – la taverna di Minnie – e quello grande – il dannato mondo in cui si muove -.

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E, prevedibilmente, protagonista del monologo e della scena più immediatamente iconica e fieramente sfacciata del film, la punizione più umiliante e impudente concepita per un bianco, impensabile se non da un genio dello sfondamento degli argini come Tarantino. Che attraverso Marquis, e gli altri sette bastardi (realmente) senza gloria che collidono elettrici e letali l’uno per l’altro – chi per volontà chi per casualità –, avanza il suo compendio a oggi più compiuto dell’America tutta, una nazione sfatta in cui è la violenza – ancora una volta – l’unico possibile e accettabile linguaggio universale, il solo mezzo di interazione sociale, di vendetta, di regolamentazione, di autodeterminazione, di sopravvivenza. Una nazione la cui Storia è di volta in volta una burla, un coacervo di ambiguità, una tragicommedia fatta di voltafaccia, per cui non c’è mai niente di personale. Una nazione che è terra di illusioni, dove ci si protegge con le menzogne e si tira a campare con vertiginose beffe, che nessuno ha neppure più il coraggio di chiamare sogni.



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